
16 Lug CAMERA DEI DEPUTATI: INTERVENTO ON. GERO GRASSI, 15 LUGLIO 2013
Posted at 00:00h
in Comunicati Stampa

MOZIONE CONCERNENTE
INIZIATIVE NORMATIVE
PER LA SOSPENSIONE
DEL FINANZIAMENTO PUBBLICO
AI PARTITI
La democrazia degli Stati moderni è una democrazia dei partiti, nasce e si sviluppa con loro.
I partiti sono presenti anche nei regimi totalitari – i partiti unici dei regimi non democratici appartengono pur sempre al genus del partito politico – ma oggi è impensabile una democrazia che possa fare a meno dei partiti.
Anche Simone Weil nel suo pamphlet contro i partiti scriveva: «Un partito è, in linea di principio, uno strumento destinato a servire una certa concezione del bene pubblico».
Nella realtà dello Stato contemporaneo i partiti politici svolgono una fondamentale funzione di collegamento fra governati e governanti, aggregando sulla base di una visione comune, le domande emergenti dalla società civile, e, operandone una sintesi, le trasferiscono nell’apparato statale, in modo da consentire scelte collettive semplificate e strutturate.
Più di ottant’anni fa, James Bryce, affermava: «I partiti sono inevitabili. Nessuno ha dimostrato come il governo rappresentativo potrebbe funzionare senza di loro». Essi rappresentano un principio ordinatore e semplificatore, «creano l’ordine dal caos di una moltitudine di elettori», perciò sono indispensabili per il funzionamento della democrazia.
Nonostante le ripetute dichiarazioni di crisi, declino, scomparsa, tramonto o semplicemente loro irrilevanza, i partiti politici mantengono un ruolo altamente significativo in tutte le democrazie occidentali, persino negli Stati Uniti.
Le funzioni che i partiti esplicano (organizzazione del consenso, formazione e selezione dei candidati alle cariche pubbliche, coordinamento delle loro rappresentanze nelle istituzioni politiche eccetera) sono ritenute sistemiche, ovvero necessarie al regolare funzionamento dei sistemi democratici.
Si può quindi affermare che «la buona salute delle democrazie dipende dalla buona salute dei partiti »…

MOZIONE CONCERNENTE
INIZIATIVE NORMATIVE
PER LA SOSPENSIONE
DEL FINANZIAMENTO PUBBLICO
AI PARTITI
La democrazia degli Stati moderni è una democrazia dei partiti, nasce e si sviluppa con loro.
I partiti sono presenti anche nei regimi totalitari – i partiti unici dei regimi non democratici appartengono pur sempre al genus del partito politico – ma oggi è impensabile una democrazia che possa fare a meno dei partiti.
Anche Simone Weil nel suo pamphlet contro i partiti scriveva: «Un partito è, in linea di principio, uno strumento destinato a servire una certa concezione del bene pubblico».
Nella realtà dello Stato contemporaneo i partiti politici svolgono una fondamentale funzione di collegamento fra governati e governanti, aggregando sulla base di una visione comune, le domande emergenti dalla società civile, e, operandone una sintesi, le trasferiscono nell’apparato statale, in modo da consentire scelte collettive semplificate e strutturate.
Più di ottant’anni fa, James Bryce, affermava: «I partiti sono inevitabili. Nessuno ha dimostrato come il governo rappresentativo potrebbe funzionare senza di loro». Essi rappresentano un principio ordinatore e semplificatore, «creano l’ordine dal caos di una moltitudine di elettori», perciò sono indispensabili per il funzionamento della democrazia.
Nonostante le ripetute dichiarazioni di crisi, declino, scomparsa, tramonto o semplicemente loro irrilevanza, i partiti politici mantengono un ruolo altamente significativo in tutte le democrazie occidentali, persino negli Stati Uniti.
Le funzioni che i partiti esplicano (organizzazione del consenso, formazione e selezione dei candidati alle cariche pubbliche, coordinamento delle loro rappresentanze nelle istituzioni politiche eccetera) sono ritenute sistemiche, ovvero necessarie al regolare funzionamento dei sistemi democratici.
Si può quindi affermare che «la buona salute delle democrazie dipende dalla buona salute dei partiti ».
Il tema del ruolo dei partiti costituisce uno degli snodi della crisi delle democrazie moderne, sulle quali incombe la minaccia di una nuova forma di populismo, una subdola miscela di televisione e di plebiscitarismo, con il rischio di una progressiva deriva oligarchica. Siamo forse entrati, senza rendercene conto, in quella «postdemocrazia» nella quale anche se le elezioni continuano a svolgersi, il dibattito elettorale è ridotto a uno spettacolo saldamente controllato da gruppi rivali di professionisti esperti delle tecniche di persuasione e si esercita su un numero ristretto di temi selezionati dagli stessi gruppi.
Il concetto moderno di partito nasce all’interno del Parlamento inglese nel XVIII secolo, con la divisione tra due schieramenti, in competizione per determinare gli indirizzi governativi. È dall’incontro fra le istituzioni rappresentative e la società, ormai libera dai vincoli feudali e premoderni, che prende forma il partito politico.
Detto con le parole di Max Weber: «è nello Stato legale a Costituzione rappresentativa che i partiti assumono la loro fisionomia moderna».
La scienza politica ha elaborato tipologie diverse di partito, ciascuna, a modo suo, connessa alle trasformazioni sociali in cui era coinvolta, in una logica di adattamento all’evoluzione delle democrazie liberali.
Da decenni si fa riferimento a tre tipi fondamentali di partito: quello di élite o dei notabili, il partito di massa e il partito «pigliatutto». A questi, da qualche tempo, si è aggiunto un quarto tipo: il cartel party o «partito cartello».
Con la democratizzazione delle istituzioni rappresentative e l’estensione progressiva del suffragio elettorale – il fenomeno più incidente sull’organizzazione e sulle funzioni dei partiti – il partito moderno assume la forma del partito di massa. L’ingresso delle masse popolari nella sfera politica spinge i partiti a completare e ad arricchire la loro fisionomia originaria, con un’organizzazione stabile e capillare sul territorio ed un apparato con accentuati caratteri di professionismo e di burocratizzazione, necessari per assolvere ai nuovi e complessi compiti della società di massa. Non si tratta più di organizzare i partiti dentro le assemblee rappresentative e negli esecutivi, ma di mobilitare, motivare e indirizzare il voto e il sostegno delle masse popolari nella societ à.
In aggiunta a questi, vi è un terzo modello, quello del cosiddetto «partito pigliatutto», dove ciò che si vuole «accalappiare» sono gli elettori. Le caratteristiche che connotano questa tipologia di partito sono l’alleggerimento del supporto ideologico, il rafforzamento della leadership e il conseguente ridimensionamento del ruolo degli iscritti: al loro posto acquista un ruolo centrale la televisione, che permette di comunicare con tutto l’elettorato in maniera più efficace di quanto sia possibile.
I partiti sono diventati «partnership di professionisti più che associazioni di e per i cittadini» e la politica è ormai «un’occupazione piuttosto che una vocazione». Un’evoluzione che provoca un progressivo e reciproco «distanziamento» dai/dei cittadini che si sentono estraniati dalla vita dei partiti che, peraltro, essi sentono estranei alla loro vita.
Se il pregiudizio antipartitico è sempre esistito e viene da lontano, non c’è dubbio che negli ultimi tempi ha assunto uno spessore più definito e consistente.
Il fenomeno è particolarmente avvertito in Italia dove la disaffezione alla politica ha raggiunto l’apice nei primi anni ’90 allorquando le inchieste della magistratura rivelarono l’esistenza di un sistema, passato alla storia come «Tangentopoli», basato su corruzione, concussione e finanziamenti illeciti, che coinvolgeva imprenditori e numerosi esponenti della classe politica, locale e nazionale.
I partiti della cosiddetta «prima Repubblica» erano nati in una stagione di forti passioni e idealità, ai loro aderenti avevano offerto identit à, senso, partecipazione: quando tutto questo è venuto meno «la Repubblica si è accartocciata su se stessa ».
D’altronde, la corruzione è un indicatore evidente della scarsa salute della democrazia, poiché rivela la debolezza delle istituzioni e l’emergere di una classe politica cinica, amorale, arrogante e avulsa da ogni controllo pubblico. Da quella crisi, nonostante vari tentativi di rigenerazione e anche di «reinvenzione», i partiti non si sono più ripresi, nel senso che non hanno pi ù ripreso la credibilità e la legittimazione di cui godettero nei primi anni della Repubblica.
«Il vero problema dei partiti della II Repubblica – scrive Grilli di Cortona – è che alla deistituzionalizzazione dei vecchi partiti non ha fatto seguito l’istituzionalizzazione dei nuovi. Questi ultimi non hanno raggiunto quel grado di istituzionalizzazione che aveva caratterizzato quelli della I Repubblica»
Oggi i partiti politici non mobilitano più, stentano a comunicare con la società, rispetto alla quale sussiste una sorta di separatezza. Ed è anche a causa di questa separatezza che ha potuto svilupparsi una degenerazione della loro vita interna. Venendo meno la partecipazione si sono rarefatti gli «anticorpi » della vigilanza interna sui comportamenti dei gruppi dirigenti, i quali sempre più sono tali soprattutto per cooptazione.
Emblematica in questo senso è la nuova legge elettorale italiana (che ha introdotto un sistema proporzionale seppure spurio) con la quale i candidati «eletti» in Parlamento sono di fatto predeterminati dai vertici di partito, con un sistema di liste bloccate che non lascia nessuna scelta agli elettori.
Ma le ragioni della progressiva e reciproca estraniazione fra vita dei politici e vita dei cittadini è effettivamente frutto di cause più complesse, non tutte obiettivamente imputabili alla volontà e alla responsabilit à dei politici. I processi di mediatizzazione e di informatizzazione della comunicazione hanno infatti lentamente e inesorabilmente trasformato la società civile in opinione pubblica e, dunque, in soggetto non più «attore» ma «spettatore» della politica. Dall’altro lato hanno indotto la politica ad adeguarsi alla logica stringente del mercato dello spettacolo mediatico, che insegue forme nuove di agonismo e inevitabilmente di personalizzazione delle leadership.
Il sistema politico ha cercato di «incanalare» tale fenomeno entro percorsi nuovi che ne conservassero e possibilmente innovassero le connotazioni democratiche, aprendo una stagione di riforme istituzionali.
Il crescente presidenzialismo che ha caratterizzato la vita politica italiana, dall’inizio degli anni ’90 ad oggi, dall’elezione diretta dei sindaci fino all’indicazione del premier, ha avuto il merito di tentare di ricostruire un filo diretto tra governanti e governati. Nella stessa logica sono stati pensati i collegi uninominali della precedente legge elettorale, il cosiddetto «Mattarellum», voluti dal legislatore, sulla spinta del movimento referendario, per riavvicinare ogni eletto al suo elettore, in modo da ricondurre i suoi comportamenti a un esplicito mandato elettorale.
La strada delle riforme, purtroppo, si è interrotta bruscamente, del presidenzialismo abbiamo preso solo l’aspetto monocratico, senza avere il tempo di riflettere sui necessari contrappesi.
Ma, per tornare al processo di «leaderizzazione» della vita dei partiti, che solo in parte si intreccia con quella delle istituzioni e che, in un certo senso, trascende, come abbiamo visto, la specificità delle leggi elettorali, occorre riconoscere che il fenomeno, ovviamente, non è solo italiano.
Tra i primi in Europa, Berlusconi ha intuito le trasformazioni in atto, e attraverso il controllo dei media è riuscito ad accelerare il passaggio ad una «democrazia monocratica», con un premier legittimato dal voto popolare che risponde direttamente all’elettorato e alla nazione delle sue scelte di governo, teorizzando di fatto una democrazia senza partiti, cementata sul rapporto diretto tra il principe (elettivo) e il popolo. È vero che formalmente nel modello berlusconiano i partiti non vengono cancellati, ma assumono un ruolo e una connotazione assolutamente inediti. Diventano associazioni di sostenitori, non di soci militanti.
Il modello è quello dei club di tifosi, con le bandiere, l’inno della squadra, i «gadget», che, come tali, non hanno organi, o se li hanno vengono riuniti raramente e solo con compiti di «ratifica», non fanno congressi o, se li fanno, li fanno non per scegliere ma per incoronare il capo.
La democrazia come mercato, dove i titolari della sovranità (articolo 1 della Costituzione) diventano gli acquirenti, i consumatori di prodotti politici.
In questa concezione della democrazia il partito diventa fabbrica di prodotti per conto del titolare, prodotti da vendere, non sede di un’associazione di liberi cittadini che vogliono concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale.
Questo processo ha finito per trascendere il cosiddetto «berlusconismo» investendo ormai gran parte del sistema dei partiti, per le ragioni analizzate in precedenza.
D’altra parte la fine delle grandi ideologie del Novecento, la secolarizzazione valoriale, le grandi trasformazioni tecnologiche che hanno aumentato le modalità e la qualità della comunicazione pubblica, hanno ridotto significatamente la possibilità che la partecipazione ai processi democratici possa avvenire nelle forme del passato.
Hanno mutato e reso esili ed egoistiche le stesse ragioni di ciò che siamo soliti definire «appartenenza». Le identità forti non sono più proponibili, essendo un ostacolo ingombrante in una società dominata dal pensiero leggero. Del resto le regole della comunicazione televisiva impongono, come abbiamo detto, la spettacolarizzazione del dibattito politico, l’abilità mediatica dei leader, la brevità e l’efficacia del messaggio.
È quella che viene chiamata la personalizzazione della politica. «Questo fenomeno concerne specificamente il rapporto fra elettori, da un lato, Parlamento e assemblee locali dall’altro. E può essere considerato tanto dal punto di vista dell’elettore come da quello dell’eletto, perché, in effetti, per entrambi, la persona anziché il soggetto collettivo partito, diventa il principale riferimento».
La personalizzazione della politica comporta inevitabilmente la personalizzazione della leadership politica.
Potere mediatico e fiducia popolare sono i due volti della personalizzazione della leadership, è cosi che nasce il «partito del leader». Si afferma un nuovo tipo di voto, il voto «impressionista», un voto in cui i leader contano molto più dei partiti; la personalizzazione ha così la meglio sui programmi, «le impressioni finiscono col prendere il posto delle opinioni»
Il peso del voto impressionista è dato dal fatto di essere particolarmente diffuso tra gli elettori fluttuanti e indecisi, tra coloro che, decidendo all’ultimo minuto per chi votare, finiscono per essere determinanti. Sono elettori con livelli di istruzione inferiori alla media e fondamentalmente disinteressati all’approfondimento di tematiche complesse, che con grande facilità si lasciano sedurre dall’effetto leadership.
Si può notare come ormai sia passato nel linguaggio comune l’uso dell’aggettivo possessivo «mio» riferito sia al governo che al partito. Non si appartiene più al partito, ma è il partito che mi appartiene: «il mio partito». E così per il governo: «il mio governo». Ma giustamente rilevò Norberto Bobbio: «partito personale è una contraddizione in termini. Il partito per definizione è una associazione di individui che stanno insieme per raggiungere uno scopo comune».
In Italia questo processo assume caratteri più rischiosi per la tendenza della razza latina a cercare sempre un capo, a non trovare salute fuori di uomo.
In ogni caso questa contraddizione in termini, il «partito personale», merita una seria attenzione perch é mina o, quantomeno, trasforma alla base l’organizzazione classica, e per noi costituzionale (articolo 49), della democrazia. Poiché il rapporto possessivo che il leader ha con il «suo» partito, trasforma la condizione dell’associato del partito stesso in quella di adepto, di fedele, di sostenitore.
Il «partito personale» è un partito in cui il leader è il partito stesso. Le sue decisioni non sono deliberate ma al massimo ratificate, sono comunicate, normalmente, attraverso i mezzi di informazione. Le «fortune» del partito coincidono con quelle del suo capo e, dunque, tutto il partito lavora per il successo personale del leader
I dissensi, se espressi pubblicamente, vengono interpretati come azioni contro il partito. Il capo è attorniato da una équipe di fedeli collaboratori che lo consigliano, lo proteggono e condividono con lui, quantunque essi non siano stati eletti ma normalmente solo designati, quote di responsabilità di direzione della gestione del partito e di definizione della linea politica.
Nel «partito personale» non c’è spazio per le posizioni di minoranza: con il capo si è d’accordo o non lo si è. Se non lo si è, normalmente si è indotti a lasciare il partito poiché, appunto, il partito coincide con il suo leader.
Nel «partito personale » è molto difficile che una minoranza possa diventare maggioranza dato il controllo stretto dei meccanismi di formazione della base congressuale da parte del capo e del suo team direttivo.
Sui rapporti interni il partito personale si configura, dunque, come il luogo in cui il leader e la sua maggioranza esercitano il potere «totale», realizzando una effettiva restrizione degli spazi di comunicazione tra vertice e base, «a favore di uno schema di appello individualistico-strumentale operato dal leader attraverso i moderni mezzi di comunicazione di massa in occasione di eventi speciali come le elezioni»
La nostra Costituzione, all’articolo 49, contrariamente a quella che era la tendenza diffusa negli ordinamenti precedenti di omettere ogni riferimento ai partiti, ha disposto che: «Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale».
Tace però sul tema della disciplina giuridica dei partiti politici, anche se la questione venne affrontata dai Costituenti, già nella I sottocommissione, dove, il 20 novembre 1946, fu approvato un ordine del giorno proposto da Dossetti che faceva riferimento alla necessità di affermare il principio del riconoscimento giuridico dei partiti politici.
Costantino Mortati, nella seduta dell’Assemblea del 22 maggio 1947, propose, con il collega Ruggiero, un emendamento, poi respinto, che diceva: «Tutti i cittadini hanno diritto di riunirsi liberamente in partiti che si uniformino al metodo democratico nell’organizzazione interna e nell’azione diretta alla determinazione della politica nazionale».
In quella stessa seduta Aldo Moro, intervenendo a favore dell’emendamento Mortati, sostenne la proposta di costituzionalizzare il vincolo democratico interno, sulla base della considerazione che «se non vi è una base di democrazia interna, i partiti non potrebbero trasfondere indirizzo democratico nell’ambito della vita politica del Paese”.
I Costituenti furono tutti d’accordo nel riconoscere il fondamentale ruolo dei partiti politici, ma non sul fatto di sottoporli a vincoli e a verifiche sulla loro vita interna; si preferì allora non intervenire su questo aspetto, per la preoccupazione, espressa soprattutto da parte degli esponenti della sinistra, che si arrivassero a definire «una indebita ingerenza e un pericoloso criterio di esclusione».
È opinione condivisa che sulle decisioni dei nostri Costituenti pesò il clima politico di quegli anni con l’inizio della guerra fredda e la rottura intervenuta tra i partiti che avevano dato vita al Comitato di liberazione nazionale, con l’esclusione cioè del Partito comunista e del Partito socialista dal governo. A sinistra si temeva l’uso che avrebbe potuto fare la maggioranza di norme che consentissero un controllo stringente sulla vita interna dei partiti.
In questa prospettiva la democraticità del sistema apparve meglio tutelata dalla «lacuna della legge» piuttosto che da una integrale attuazione legislativa dell’articolo 49 della Costituzione, dando spazio in questo modo a una concezione «privatistica» del partito politico.
La questione tornò d’attualità, agli inizi degli anni ’60, nel corso delle polemiche contro la cosiddetta «partitocrazia», dove si intrecciarono due filoni diversi: da una parte, quanti denunciavano l’ipertrofia del ruolo dei partiti, il loro predominio su ogni aspetto della vita pubblica e, dall’altra parte, quanti invece paventavano la burocratizzazione degli apparati, conseguenza delle spinte oligarchiche, e richiamavano all’esigenza di regolamentare la vita interna dei partiti.
È in questo contesto che nel 1958 don Luigi Sturzo presentò al Senato un disegno di legge sul finanziamento dei partiti, mai discusso, che prevedeva il riconoscimento della personalità giuridica dei partiti. Altri progetti furono predisposti negli anni ’60 dalla Commissione per i problemi costituzionali del Partito repubblicano italiano e dal Club Turati, ma neppure questi riuscirono ad approdare in Parlamento
Il tema tornò all’attenzione del legislatore a metà degli anni ’70 con il dibattito sul finanziamento pubblico dei partiti.
A metà degli anni ’80, nella relazione di maggioranza della Commissione Bozzi, la prima Commissione bicamerale per le riforme istituzionali, venne avanzata una proposta di riformulazione dell’articolo 49 della Costituzione, che prevedeva: «disposizioni dirette a garantire la partecipazione degli iscritti a tutte le fasi di formazione della volontà politica dei partiti, compresa la designazione dei candidati alle elezioni, il rispetto delle norme statutarie, la tutela delle minoranze». Anche questa iniziativa non si tradusse in un concreto intervento legislativo ma segnò una sorta di inversione di rotta, e nuovi progetti di legge sull’attuazione dell’articolo 49 della Costituzione vennero presentati alle Camere a partire dalla IX legislatura.
Ha osservato Andrea Manzella che se il partito è strumento di un diritto politico individuale, tale diritto non può esercitarsi se non trova procedure capaci di assicurare la partecipazione democratica degli associati. Allo stesso tempo, se i partiti sono costituzionalmente inseriti nel circuito di «determinazione» della politica nazionale, anche la loro struttura interna e i loro processi decisionali devono ispirarsi a regole di democraticità e di trasparenza, come avviene negli altri luoghi istituzionali della politica”.
In gioco ci sono gli stessi diritti dei cittadini che vogliono partecipare alla vita dei partiti, che intendono «concorrere a determinare la politica nazionale». La fonte non necessariamente va tutta trovata nella legge, che può limitarsi a stabilire alcuni princìpi, ma può essere collocata negli stessi statuti dei partiti, preventivamente approvati e depositati, cui potrebbe essere richiesto un «contenuto minimo».
I cittadini sono i soggetti considerati dall’articolo 49, mentre i partiti sono solo lo strumento. Essi hanno bisogno di vedere tutelato il loro diritto di partecipazione, non solo attraverso i consueti strumenti (dal diritto di iscrizione fino al diritto di accesso alle informazioni) ma anche tramite forme nuove di partecipazione alle loro decisioni, in particolare a quelle – come la presentazione delle candidature – il cui rilievo pubblicistico è più marcato.
In altri Paesi questo avviene in due modi: o attraverso elezioni primarie (che non riguardano, ormai, solo gli Stati Uniti), fissate per legge o promosse dai partiti stessi, o attraverso altre forme di partecipazione alla vita dei partiti.
Una corretta vita interna dei partiti non la richiedono, quindi, solo il diritto costituzionale e quello parlamentare, ma anche lo stesso diritto privato; non riguarda solo il buon funzionamento dei circuiti della democrazia, ma anche i diritti degli iscritti.
Si tratta di garantire la possibilità del ricambio alla guida del partito, di salvaguardare l’espressione del dissenso interno, la partecipazione delle minoranze agli organi deliberativi, la disponibilità delle strutture, dei mezzi e degli organi di informazione ufficiali del partito, e soprattutto la disciplina delle procedure per la scelta dei candidati, lasciando all’autonomia statutaria le modalità di attuazione di tali regole.
Tra i Paesi dell’Unione europea che hanno una normativa riguardante i partiti ci sono la Germania e il il Portogallo. E’ la stessa Costituzione a prevedere specifiche disposizioni in materia di partiti.
Si tratta di Paesi, non a caso, le cui Costituzioni sono state approvate dopo esperienze di dittatura e di partito unico. Anche in Austria esiste una legge ad hoc sui compiti, sul finanziamento e sulla propaganda elettorale dei partiti politici.
In Francia, invece, per un lungo periodo, in presenza di una disposizione costituzionale non diversa dalla nostra, per regolare l’attività dei partiti politici si è scelto di utilizzare una legge di carattere generale sulle associazioni del 1901.
Ma la più recente legislazione sul finanziamento dei partiti, e la connessa normativa sulla trasparenza della vita pubblica, hanno prodotto una nuova disposizione che prefigura uno statuto specifico dei partiti destinata a sostituire quella fino ad ora applicata, di carattere generale, valida per tutte le associazioni
In Grecia i partiti politici non solo sono oggetto di una norma specifica della Costituzione, ma sono anche richiamati dalla disposizione costituzionale che disciplina il procedimento di formazione del governo.
Nel Regno Unito, infine i partiti sono, tradizionalmente, una emanazione dei gruppi parlamentari disciplina la loro registrazione. Rendere obbligatoria la registrazione dei partiti politici è stato ritenuto un passo necessario per poter procedere alla previsione di un finanziamento pubblico dei partiti e alla disciplina della propaganda elettorale a livello nazionale.
In Austria, Germania, Portogallo, Spagna, norme circostanziate disciplinano il deposito dello statuto dei partiti, la loro pubblicità e l’acquisizione della personalità giuridica. In alcuni di questi Paesi, le disposizioni si addentrano nell’organizzazione interna, fissano i diritti e i doveri degli iscritti, regolano la formazione della volontà degli organi di partito.
Nel 2003 l’Unione europea si è dotata di una legislazione comunitaria per concedere sussidi pubblici ai partiti politici europei. Il regolamento, entrato in vigore nel 2004, fissa le condizioni necessarie per poter identificare «un partito politico a livello europeo», riconoscimento che dà diritto al finanziamento comunitario.
Sono: possedere la personalità giuridica nello Stato membro in cui ha la sede; rispettare, in particolare nel suo programma e nella sua azione, i principi sui quali è fondata l’Unione europea, vale a dire i principi di libertà, di democrazia, di rispetto dei diritti dell’uomo, delle libertà fondamentali e dello Stato di diritto; essere rappresentato da membri eletti al Parlamento europeo o in assemblee legislative a livello nazionale o regionale in almeno un quarto degli Stati membri, aver partecipato alle elezioni europee.
Infine, la domanda di finanziamento a carico del bilancio generale dell’Unione europea deve essere corredata da uno «statuto che definisca segnatamente gli organi responsabili della gestione politica e finanziaria, e gli organismi o le persone fisiche che detengono, in ciascuno degli Stati membri interessati, il potere di rappresentanza legale, in particolare per quanto riguarda l’acquisizione o la cessione di beni immobili e la capacità di stare in giudizio»
Il 23 marzo 2006, il Parlamento europeo, con 498 voti favorevoli, 95 contrari e 7 astensioni, ha adottato la relazione di Jo Leinen (PSE, Germania) sui partiti politici europei con la quale si chiede «un vero e proprio statuto dei partiti politici europei» che definisca i loro diritti e doveri e dia loro la possibilità di ottenere una personalità giuridica basata sul diritto comunitario, valida anche negli Stati membri. In effetti, allo stato attuale, i partiti politici europei possono solamente avere uno statuto legale basato sulla loro personalità giuridica nel Paese in cui hanno la propria sede. Alcuni di essi, per convenienza, hanno scelto la forma giuridica dell’associazione belga senza scopo di lucro, mentre altri hanno optato per la forma giuridica di un’associazione internazionale senza scopo di lucro.
Nella risoluzione approvata si sottolinea, in particolare, la necessità che detto statuto contempli «regole concernenti l’appartenenza individuale ai partiti politici a livello europeo, la loro direzione, la candidatura e le elezioni nonché le modalità e il sostegno per i congressi e le riunioni di tali partiti».
I più recenti sviluppi del diritto costituzionale europeo e i suoi svolgimenti legislativi spingono in direzione di una disciplina normativa che favorisca l’istituzionalizzazione dei partiti politici, prevedendo opportuni controlli sulla loro democraticità interna, nel presupposto di una strutturata soggettività giuridica degli stessi.
La questione è ancora aperta, ma il tema della regolamentazione dei partiti è ormai all’ordine del giorno anche in Europa.
Abbiamo visto come i partiti siano tra le istituzioni più fragili e nello stesso tempo più essenziali al funzionamento della democrazia. Se è vero che la loro trasformazione è largamente indotta dai cambiamenti intervenuti nella società e nelle tecnologie della comunicazione, ci si deve applicare all’obiettivo di preservarne il carattere di sperimentatori e produttori di democrazia. Conciliando, altresì, un certo grado di personalizzazione della leadership con la necessità che la sovranità interna possa essere sostanzialmente agita dagli associati e dai dirigenti da essi espressi.
Se l’obiettivo della democrazia moderna è, come dice Karl Popper, quello di poter un giorno sostituire il leader eletto senza ricorrere alla violenza, la prima condizione da preservare anche nella vita dei partiti è proprio questa. Se la caratteristica delle democrazie moderne è quella della separazione e del bilanciamento dei poteri, occorre garantire che all’esaltazione del potere del leader possa corrispondere una più accentuata possibilità di controllo e di concorso all’esercizio del potere stesso.
È tempo che la politica intervenga con energia. Assecondare, anche solo per distrazione od omissione, i processi in atto può portarci paradossalmente verso una forma di democrazia illiberale.
Detto tutto questo, io ritengo che la mozione presentata dal Movimento cinque Stelle sia inopportuna, e quindi anticipo il mio voto contrario, anche perché andrebbe a regolamentare ex post processi ed effetti, non solo economici, già determinatesi.
E’ inopportuna perché il problema non è quello di non finanziare i partiti, semmai quello di ridurre ulteriormente il finanziamento, già dimezzato nella scorsa legislatura con il voto determinante del Partito Democratico, alla luce della gravissima situazione economica che il Paese vive e di studiare forme di finanziamento nuove, rigidamente sottoposte al controllo degli organi appositi e con clausole di salvaguardia di totale trasparenza e legalità.
Gli scandali, le ruberie, le distrazioni determinate nella gestione del finanziamento pubblico non devono indurci a considerare che la democrazia senza danaro pubblico e trasparente può reggere.
Ove immaginassimo una democrazia completamente sganciata dal finanziamento pubblico, dovremmo necessariamente immaginare, come conseguenza, anche una democrazia sottoposta a finanziamenti privati.
La disonestà di alcuni, da condannare pesantemente non deve ledere il diritto dei cittadini onesti al diritto alla vita politica.
Io sono contrarissimo ai finanziamenti privati della democrazia e dei partiti perché ledono la stessa democrazia, annientano la libertà degli eletti e non consentono a tanti come me che, pur facendo politica da anni, l’hanno sempre fatta con professionalità ma senza professionismo, di sentirsi uomini liberi.
Non si tratta di abolire totalmente il finanziamento, si tratta invece, di studiare come nell’Italia odierna si possa e si debba consentire a tanti cittadini di ‘praticare’ la politica e di vivere le Istituzioni da protagonisti.